È estremamente difficile trovare un tipo di approccio uniforme nei bambini affetti da questa malattia neuromotoria. Mai come in questi casi diventa necessario individualizzare il percorso di cura per ovviare alla scarsa collaborazione del paziente, alle sue difficoltà di coordinazione motoria e di deglutizione. A fronte delle difficoltà terapeutiche, gioca un ruolo decisivo la prevenzione.
La paralisi cerebrale infantile è la malattia neuromotoria più frequente in età pediatrica, che presenta un quadro clinico molto diversificato. La cura dei disturbi odontoiatrici richiede un attento e premuroso lavoro di equipe per ovviare alla scarsa collaborazione del paziente, alle sue difficoltà di coordinazione motoria e di deglutizione. Ne abbiamo discusso con Paolo Ottolina, odontoiatra libero professionista, esperto in special care dentistry e tesoriere della Società Italiana di Odontostomatologia per l’Handicap (SIOH, www.sioh.it).
Dottor Ottolina, vogliamo inquadrare dal punto di vista clinico la patologia nota come paralisi cerebrale infantile?
La paralisi cerebrale infantile (PCI) è un disturbo neurologico persistente che riguarda soprattutto la postura, il movimento, la coordinazione motoria e le capacità di comunicazione. Viene ritenuta la malattia neuromotoria più frequente in età pediatrica, colpendo un bambino ogni 400-500. Essa rappresenta l’esito di una lesione del sistema nervoso centrale che abbia comportato una perdita di tessuto cerebrale. Per tale motivo non si riconosce un’unica causa e neppure un preciso momento di insorgenza; infatti, essa insorge nel bambino entro il termine dello sviluppo della funzione cerebrale (primi tre anni di vita). Le cause sono molteplici, ma il maggior rischio è rappresentato da un basso peso alla nascita, da infezioni (che colpiscono sia la mamma durante la gravidanza che il bambino stesso), da eventi ischemici intrauterini. Ci sono, altresì, casi in cui l’origine è genetica.
La patologia non tende al peggioramento, poiché la lesione viene sostituita da tessuto cicatriziale e, quindi, non va incontro a fenomeni degenerativi.
Da un punto di vista dei sintomi, ogni paziente colpito da PCI rappresenta un caso a sé, in quanto questi dipendono principalmente dalla gravità e dall’estensione del danno cerebrale.
Di quali disturbi odontostomatologici soffrono particolarmente i pazienti affetti da paralisi cerebrale infantile?
Le manifestazioni orali nella PCI sono ascrivibili fondamentalmente ai vari tipi di sintomi sistemici presenti nel bambino. Ovviamente, la carie è la malattia a cui dobbiamo prestare maggior attenzione: essa è favorita da una igiene orale spesso poco efficace per la minor collaborazione del paziente, ma anche da una dieta soffice, che ristagna maggiormente nel cavo orale, e da una ridotta deglutizione. L’igiene orale deficitaria favorisce anche la malattia parodontale; inoltre, i farmaci antiepilettici, in molti casi assunti da questi pazienti, potrebbero influire negativamente sui tessuti gengivali.
Molto presente anche la scialorrea, a causa dei problemi di deglutizione. I denti, poi, possono apparire erosi nella componente dello smalto, sia per fenomeni di ipoplasia che per la presenza di una saliva con pH acido, in seguito a frequenti episodi di RGE. Le serie difficoltà in termini di coordinazione motoria, decisamente presenti in questi soggetti, arrecano spesso anche segni di trauma sia ai tessuti duri che ai tessuti molli, con forme anche importanti di automorsicamento.
In circa il 30% dei casi si riscontrano anche disturbi all’articolazione temporo-mandibolare, e vista la collaborazione spesso inadeguata, essi sono estremamente difficili da trattare. La PCI in circa il 25% dei casi è anche associata a forme più o meno gravi di bruxismo.
Infine, in una percentuale molto elevata di chi è colpito da PCI (i dati in letteratura sono discordanti, ma di certo ben più della metà dei soggetti) presenta anche forme di malocclusione: molto spesso i soggetti sono in II classe con arretramento della mandibola.
Da non trascurare mai è anche il problema dell’alitosi, il quale spesso non emerge dagli studi scientifici, ma che, in realtà, viene percepito da parenti e da caregiver come un problema molto importante, in grado di non favorire una già complessa vita di relazione e di integrazione sociale.
In tema di corretti approcci terapeutici cosa possiamo dire?
La mia esperienza, ormai più che ventennale, mi porta a dire che è estremamente difficile trovare un tipo di approccio uniforme nelle persone con disabilità. Mai come in questi casi è necessario individualizzare il percorso di cura. Ecco perché diventa fondamentale utilizzare il momento della prima visita, a cui sarebbe opportuno dedicare molto tempo, per inquadrare il paziente da un punto di vista anamnestico (vista la molteplicità di problematiche sistemiche e specifiche del cavo orale), al fine di comprendere il più possibile il livello di collaborazione offerto e, soprattutto, con l’obiettivo di iniziare a intraprendere un percorso con il paziente e con i suoi famigliari o i suoi caregiver.
Ogni elemento utile a curare le problematiche del cavo orale in ambito ambulatoriale, di cui si verrà a conoscenza nelle varie sedute, va annotato in cartella (giochi preferiti, musiche, interessi, nome di parenti e amici, eccetera). Non è possibile curare le bocche dei pazienti con disabilità senza prima prendersi cura delle persone stesse e, aggiungerei, del mondo che le circonda.
Ovviamente ci saranno casi in cui, nonostante i miei sforzi e quelli della preziosissima equipe con cui lavoro, la cui collaborazione, entusiasmo e corretta formazione appaiono valori imprescindibili, non si riusciranno a effettuare le cure necessarie attraverso il semplice approccio. In tal caso, verranno valutate strategie terapeutiche alternative che giungono all’extrema ratio dell’anestesia generale.
Esistono rischi specifici legati all’insorgenza di complicanze durante la terapia?
In ogni caso, il medico quando decide una strategia terapeutica deve valutare con attenzione il rapporto rischio/beneficio di ciò che sta per fare.
Nei casi di persone che offrono una ridotta collaborazione e un accesso al cavo orale deficitario, va riposta un’attenzione ancora più particolare a questo aspetto.
Ad esempio, il movimento di lussazione con una leva, che in un soggetto collaborante sarebbe quasi banale, in un soggetto che tende a chiudere la bocca o che compie movimenti involontari potrebbe essere molto pericoloso.
Per tale motivo si dovranno utilizzare tutte le accortezze necessarie (apertura della bocca con bite block, posizionamento e mantenimento del capo in maniera salda da parte di un famigliare o di un membro dell’equipe, controllo di movimenti involontari degli arti superiori) per agire in assoluta sicurezza.
Se già dall’inizio si dovesse valutare pericoloso intervenire in ambito ambulatoriale, si dovrà curare la persona in una seduta di anestesia generale. Un altro elemento su cui insisto molto quando mi chiedono di queste difficoltà è relativo al controllo assoluto della quantità di acqua in bocca durante le nostre manovre odontoiatriche.
Come già sottolineato in precedenza,la disfagia (di vario grado) colpisce spesso questa tipologia di paziente e un controllo inadeguato dei liquidi potrebbe provocare fenomeni sgradevoli sino ad arrivare a episodi di ab ingestis.
Ancora una volta il posizionamento corretto del capo aiuta in questa manovra, a cui l’assistente alla poltrona deve prestare un’attenzione assoluta. Queste posture atipiche comportano spesso anche una posizione scorretta di tutti i membri dell’equipe, al fine di facilitare la comodità del paziente. Altre complicanze potrebbero presentarsi dopo un atto chirurgico: può capitare infatti che questi soggetti tendano a toccarsi in bocca, procurandosi un rallentamento dell’emostasi.
Allo stesso modo, l’effetto provocato dall’anestesia locale potrebbe causare un incremento di forme di automorsicamento già presenti in queste persone. È sempre raccomandabile che la giornata della seduta odontoiatrica (sia prima che dopo) sia rilassante per il paziente e per gli accompagnatori. Sembra incredibile, ma a volte il nostro successo terapeutico dipende veramente da una sommatoria di particolari apparentemente piccoli, ma che in realtà risultano essere quanto mai sostanziali.
Concluderei dicendo che viste le difficoltà terapeutiche e anche gestionali (tempo, spostamenti, costi, eccetera) da parte della famiglia per curare la bocca di questi bambini, diventa assolutamente indispensabile intervenire in termini di prevenzione rispetto alle più comuni patologie del cavo orale.
Pazienti, famigliari e caregiver vanno costantemente istruiti e motivati nell’igiene orale domiciliare, discutendo caso per caso i migliori device da adottare per ogni singola persona. Nei casi più complessi in termini di collaborazione e di accesso al cavo orale, è suggeribile utilizzare garze o, ancora meglio, salviettine (più morbide) imbevute di clorexidina, sempre all’insegna di un favorevole rapporto rischio/beneficio.
Non va neanche dimenticato che esistono linee guida nazionali per la promozione della salute orale e la prevenzione delle patologie orali in età evolutiva – facilmente scaricabili dal sito del ministero della Salute – che attraverso una serie di raccomandazioni, valutate con diversi gradi di forza e di evidenza, indicano con grande precisione il rischio di carie, le modalità con cui effettuare la fluoroprofilassi nei bambini e il valore delle sigillature.