L’applicazione rigorosa delle normative vigenti può a volte impedire alle Autorità di intervenire con maggiore severità là ove opportuno.
Una recente decisione assunta dalla Suprema Corte dimostra come la corretta e pedissequa interpretazione e applicazione di una giusta norma possa apparire agli occhi dei più foriera di gravi iniquità.
Il caso
Il dottor M.R. veniva condannato dalla Corte d’Appello di Trento in quanto riconosciuto responsabile – come peraltro già sentenziato in Tribunale – del delitto di cui all’art. 348 del Codice Penale, per aver agevolato V.P. nell’esercizio abusivo della professione di odontoiatra mettendo a disposizione dello stesso uno studio dentistico ove eseguire, insieme, interventi in equipe con successiva emissione a proprio nome di fatture per prestazioni poste in essere in realtà dall’abusivo, e del delitto di cui all’art. 8 D.Lgs. 74/2000 (con l’aggravante della perpetrazione continuata del reato), per avere – in esecuzione di un medesimo disegno criminoso e al fine di consentire all’abusivo di evadere le imposte relative ad alcune annualità – emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.
Ricorreva, allora, avanti la Suprema Corte per vedere cassata detta decisione.
Deduceva, a fondamento della sua domanda, innanzitutto la violazione della norma incriminatrice di cui all’art. 348 del Codice Penale nonché l’omessa motivazione sul punto: riteneva infatti come nessuno dei quattro comportamenti materiali indicati nel capo d’imputazione (che ricordiamo fossero: a. l’aver messo a disposizione del V. lo studio dentistico; b. l’aver eseguito con il predetto interventi di equipe; c. l’avere acquistato materiale poi messo a disposizione del predetto; d. l’avere emesso tre fatture per operazioni soggettivamente inesistenti) avesse trovato adeguata giustificazione nella sentenza.
Deduceva altresì la violazione della norma incriminatrice con riferimento al reato di cui all’art. 8 del D.Lgs. 74/2000, nonché la contraddittorietà della motivazione sul punto, sostenendo come in realtà le tre fatture incriminate fossero state emesse dal V. a sua insaputa e inserite in buona fede nella propria contabilità perché erroneamente riferite a prestazioni in precedenza effettivamente effettuate dal ricorrente, facendo così decadere quantomeno il dolo specifico.
Deduceva, infine, la violazione dell’art. 13 del D.Lgs. 74/2000, per aver omesso di sospendere il processo come – per l’appunto – disposto dal suddetto articolo: delle due l’una, o si riteneva insussistente il debito fiscale e quindi non si sospendeva il procedimento, o si riteneva configurabile il reato e allora ci si atteneva alla procedura sospendendo il dibattimento per consentire l’accertamento e la comunicazione all’imputato dell’ammontare del debito tributario. E nel caso di specie il ricorrente contestava la condanna infertagli quanto al reato di falsa fatturazione contrapposta alla mancata sospensione del procedimento, obbligatoria per legge per la contestazione del debito fiscale.
La decisione
La Corte riteneva invero infondato il primo motivo di gravame. I giudici del merito accertavano e davano atto che il V. svolgesse nel proprio studio prestazioni di tipo odontoiatrico, che non avrebbe potuto effettuare non essendo munito del relativo titolo professionale, e che, a fronte del pagamento delle prestazioni abusive, emettesse fatture dapprima a nome del precedente titolare di studio successivamente del ricorrente.
Ne deduceva quindi che l’attività di agevolazione posta in essere dal prestanome fosse consistita, anzitutto, nell’emissione di tali fatture, in secondo luogo nell’esposizione della propria targa, che induceva la clientela a ritenere che in quello studio operassero solo professionisti abilitati a effettuare le prestazioni per le quali venivano rilasciate le suddette fatture.
La consapevolezza da parte dell’odontoiatra dell’emissione dei relativi documenti fiscali, così come accertato dai giudici di merito, emergeva dalla stessa testimonianza dell’abusivo oltre che dall’inserimento delle fatture nella contabilità del M. Dichiarava infatti il V. che la loro emissione era stata concordata con l’odontoiatra stesso, al quale egli rimborsava il surplus di imposte pagate sui compensi fatturati.
Considerava invece fondato il secondo motivo di gravame per l’assenza del fine specifico, ancorché, come sopra precisato, fosse stato accertato che le fatture fossero state consapevolmente emesse. Questo era costituito dal “fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto”, comprensivo sia del fine di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d’imposta sia del fine di consentirli a terzi. Se tale fine poteva anche non essere esclusivo (altre finalità possono quindi concorrere con quella meramente fiscale) doveva però sempre sussistere perché, in difetto del dolo di evasione, il reato non sarebbe stato configurabile.
Nella concreta fattispecie, come accertato dai giudici del merito, non era stata ravvisata alcuna evasione d’imposta, e a dimostrazione di ciò il processo non era stato sospeso a norma del citato art. 13 D.Lgs. 74/2000 per consentire al pervenuto di pagare il debito erariale proprio perché non si era ritenuto vi fosse alcun debito da saldare.
Ne deduceva che l’unico fine scaturente dagli atti fosse quello di consentire l’abusivo esercizio della professione di odontoiatra al V., finalità ben diversa dal dolo di evasione fiscale richiesto dalla norma.
Annullava allora la sentenza impugnata relativamente al delitto di cui all’art. 8 D.Lgs. 74/2000 perché il fatto non costituiva reato e rinviava al Tribunale di Bolzano per la rideterminazione della pena.
L’etica del “buon” prestanome
La sentenza poc’anzi riportata sembra quasi un paradosso, ma a ben vedere altro non è che il risultato di una pedissequa e strettamente letterale interpretazione di una norma di legge.
L’art. 8 D.Lgs. 74/2000 recita: “Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
1. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
2. Ai fini dell’applicazione della disposizione prevista dal comma 1, l’emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato.
3. Se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti è inferiore a euro 154.937,07 per periodo di imposta, si applica la reclusione da sei mesi a due anni”.
La Suprema Corte si è chiesta quale effettivamente fosse la volontà dell’odontoiatra prestanome all’atto dell’emissione delle false fatture. Considerata la fattispecie tipica dell’abusivismo in cui si ipotizzava essere stato integrato il reato, concludeva come fosse in realtà ovvio e lapalissiano che il fine ultimo del dentista non potesse assolutamente essere il “consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto” bensì quello di occultare e agevolare il perpetrarsi di altro reato, integrato per l’appunto dall’art. 348 del Codice Penale (“Abusivo esercizio di una professione: Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da € 103 a € 516”).
Tutto il rispetto portato al Supremo Organo Giudicante non è sufficiente a tacere un’amara riflessione, che vede l’odontoiatra onesto doppiamente gabbato: a fronte di un abusivo che “professa” e, in tutta evidenza, froda esiste di contro un prestanome, odontoiatra disonesto ma non evasore, che “rischia” di pagare una multa di poco più salata di una contravvenzione stradale senza, ovviamente, passare neanche un secondo in gattabuia.
E ciò a dispregio non solo, o meglio, non tanto del professionista serio e preparato quanto della salute del cittadino e di quel diritto così costituzionalmente tutelato (Art. 32 della Costituzione “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, …”).
Già abbiamo avuto modo di sottolineare, da queste pagine, come sarebbe invero auspicabile una revisione dell’articolo 348 C.P. risalente al 1930 quando – in tutta evidenza – la figura del professionista destava ancora un così profondo timore referenziale da ritenere inutile inserire nel testo normativo, quale deterrente, importanti pene edittali.
Nel 2010 i “tuttologi” dissertano da media e quotidiani, basta un accesso in Internet e tutto si spiega, si analizza, si apprende, si valuta, “ci si inventa” medico, odontoiatra, avvocato, architetto, ingegnere e una multa francamente non sembra più bastare.
Perché allora non aprire le proprie menti e colpire a più ampio spettro? Era stato recentemente, e argutamente, ravvisato il reato di cui all’art. 416 Codice Penale (associazione a delinquere) nel caso in cui l’abusivismo coinvolgesse almeno tre persone (con conseguente inasprimento delle pene, quali la reclusione prevista da tre a sette anni), perché allora non allargare il terreno di gioco e coinvolgere tutti i settori del diritto in modo da dissuadere i rei dal riprovarci? Dal fisco al penale, dal civile al deontologico. Manca il dolo specifico? La falsa fatturazione non era stata posta in essere per permettere a terzi di frodare il fisco ma per consentire loro di professare abusivamente una professione? Ineccepibile. Ma ammissibile solo se sia comunque disposta la trasmissione di copia della sentenza all’Agenzia delle Entrate e all’Ordine professionale di competenza con i dovuti, conseguenti e temuti provvedimenti (seri accertamenti fiscali e gravi procedimenti disciplinari).
Il gioco varrà ancora, poi, la candela?