Non solo la pandemia da Covid-19 che ha ritardato l’anticipazione diagnostica. Anche la mancata propensione del medico odontoiatra a educare l’assistito alle buone prassi di prevenzione primaria è corresponsabile dell’incremento di nuovi casi di neoplasie orali, spesso diagnosticate solo in fase avanzata (Stadio III e IV), con sensibile impatto sulle possibilità di cura, qualità di vita e sopravvivenza del paziente.
Ne abbiamo discusso con Giuseppina Campisi, professoressa ordinaria di Malattie odontostomatologiche e direttrice del Dipartimento di Discipline chirurgiche, oncologiche e stomatologiche all’Università di Palermo.
I numeri del Cancro in Italia 2020, pubblicazione redatta da AIOM (Associazione Italiana Oncologia Medica) e AIRTUM (Associazione Italiano Registro Tumori) attestano oltre 9.900 nuove diagnosi attese per tumori della testa e collo, delle vie aeree superiori, pari al 2,6% di tutti i tumori. Stima da cui è escluso il “sommerso”: neoplasie non rilevate, diagnosi errate con implicazioni importanti in termine di successivo approccio terapeutico. Appare, dunque, necessario implementare la capacità diagnostica, oltre che la capacità di comunicare la prevenzione da parte degli odontoiatri: come fare?
Più sensibilizzazione, formazione, attività di prevenzione, per ottenere il risultato di una regolare e non fortuita diagnosi precoce della patologia oncologica del cavo orale. È questo, al momento, l’unico approccio corretto e necessario, soprattutto dopo la pandemia da Covid-19 che ha “arrestato” screening, visite periodiche e follow-up, per imprimere un’inversione di tendenza all’attuale contesto in cui, a fronte di grandi progressi nel campo delle tecnologie, imaging radiologico e chirurgia maxillo-facciale, in Italia da 50 anni l’incidenza della mortalità per tumori della testa e collo rimane sostanzialmente costante, a causa di lesioni tardivamente diagnosticate che si traducono in una sensibile riduzione delle possibilità di efficacia terapeutica e, dunque, delle aspettative di vita per il paziente. Uno studio recente, su una larga coorte di pazienti, ha dimostrato che un ritardo, o di contro una anticipazione diagnostica, di 3 settimane può cambiare la prognosi della malattia: disponiamo di importanti armi terapeutiche che perdono di efficacia se non attuate nel tempo utile, cioè precocemente.
Questo doveroso traguardo si raggiunge con l’alleanza sinergica fra le differenti figure, ciascuno nel proprio setting e ambito di competenza, implicate nella presa in carico e gestione del paziente con neoplasia del cavo orale, a partire dall’odontoiatra, primo anello di questo percorso e sulla cui poltrona deve avvenire la prima diagnosi, la più precoce possibile.
La letteratura ci descrive che il paziente dal “sospetto” diagnostico di un cancro orale rischia un pellegrinaggio alla ricerca di un centro specialistico presso cui attuare le cure necessarie: ecco come si può arrivare a un ritardo complessivo nella presa in carico di circa 180 giorni, con le implicazioni che ne conseguono. Dunque, l’odontoiatra del territorio, nel suo status di professionista di fiducia del paziente, deve sempre più sentirsi artefice e protagonista nel ruolo di custode della salute orale in senso lato, ruolo che gli compete in quanto medico del cavo orale.
Quali sono le criticità che possono ostacolare il ritardo del paziente nel rivolgersi al medico e dell’odontoiatra nel riconoscimento precoce di una lesione del cavo orale e la successiva presa in carico del paziente?
La prima riguarda, senza dubbio, la prevenzione primaria, ancora scarsa e che dipende dalla capacità del medico odontoiatra di dialogare con il paziente sia in merito alle malattie più comuni che possono interessare il cavo orale, come le carie e la malattia parodontale, sia sul pool di fattori di rischio esogeni, principalmente fumo e alcol, che possono rappresentare un trigger per l’insorgenza di lesioni, potenzialmente votate anche a una evoluzione maligna, e a cui possono aggiungersi componenti genetiche che espongono con maggiore probabilità il paziente.
Ulteriore componente che non giustifica la scarsa abilità diagnostica è rappresentata dalla “lentezza’”dei cancri del cavo orale: essi, infatti, non hanno insorgenza acuta, immediata, hanno un andamento ingravescente, sordo, progressivo che ne traccia un destino di cronicità, ma anche di maggiore gravità, per via della scarsa attenzione ai suoi segni.
La “lentezza” della malattia si pensa tolga l’ansia di arrivare a una diagnosi tempestiva, che invece inciderebbe in maniera favorevole sulla storia della patologia stessa e sul suo trattamento. In stadio precoce, infatti, l’approccio alla lesione è quasi esclusivamente chirurgico, per diventare, via via che lo stadio aumenta, un approccio chirurgico e radioterapico e/o chemioterapico, fino a che negli stati più avanzati è solo chemioterapico, con limitate chances per la sopravvivenza del paziente. Vi è evidenza che un tumore tardivo avanzato, diagnosticato al III o IV stadio, riduce le aspettative di vita a 5 anni al 5-10%, a differenza di una malattia intercettata allo stadio I (cioè un tumore di massimo 2 cm di diametro con una profondità di invasione inferiore ai 5 mm), in cui la prognosi è molto buona.
Si parla di servizi a macchia di leopardo. Dal punto di vista strutturale, il territorio è in grado di soddisfare le esigenze di diagnosi precoce del cancro orale?
Sì, sul territorio ci sono molti centri di II livello, ben codificati, presenti in tutte le regioni d’Italia, identificabili anche attraverso l’applicazione ProntOral, messa a punto dalla SIPMO (Società Italiana di Patologia e Medicina Orale) in collaborazione con Fondazione ANDI, proprio per permettere al professionista e al paziente di arrivare alla struttura referente senza perdere ulteriore tempo.
Ma questo non basta se non c’è la diagnosi precoce dell’odontoiatra, altrimenti il centro di II livello diventa solo collettore di tumori casualmente intercettati, in stadio tardivo, senza potere intervenire, lasciando la malattia al proprio corso. È noto che se impieghiamo molto tempo prima della diagnosi definitiva si rischia che il tumore aumenti progressivamente di volume, sia in termini di diametro sia di invasione dei tessuti sottostanti. Ancora una volta va sottolineata l’importanza della prevenzione primaria che permetterebbe al paziente di accorgersi “prima” che qualcosa non va nella sua bocca e di recarsi dal medico di medicina generale o dall’odontoiatra; quindi, risultano fondamentali l’abilità e la volontà di questi ultimi di instradare ed “educare” il paziente alla consapevolezza e alle buone prassi, quali la rinuncia/limitazione dei fattori di rischio (fumo e alcol), l’auto-esame e le visite periodiche alle mucose orali.
L’odontoiatra può svolgere un ruolo sentinella nell’intercettare un cancro del cavo orale?
Certamente sì. Informando e sensibilizzando il paziente, innanzitutto, a non “sottovalutare” i problemi alla bocca, non aspettando che passino da soli, ritardando così la consulenza del professionista sia per paura di sapere, sia per variabili di tipo cognitivo-comportamentale e socioeconomico.
Studi di letteratura hanno evidenziato la stretta relazione esistente fra la condizione salariale, il grado di istruzione e la personalità, compreso lo stile di vita del paziente, e la predisposizione a fare prevenzione e l’attenzione alla salute e/o a tenersi informato. Se, su questi ultimi aspetti, medico e odontoiatra non possono intervenire, possono invece lavorare efficacemente nel fare prevenzione primaria, soprattutto sul paziente a rischio o target, quindi della 5a-6a decade, quindi dai 40 anni in su, fumatore/-trice e/o bevitore/-trice, trasferendo non solo nozioni di base quali la colorazione/scolorazione dello smalto, la malattia parodontale, principale patologia orale nelle suddette decadi, ma anche sulla salute generale del cavo orale, in modo da educare il paziente a una prima autodiagnosi e, in caso di una eventuale lesione, a rivolgersi tempestivamente all’odontoiatra.
Spesso, invece, il paziente non ha consapevolezza delle lesioni che si possono sviluppare in bocca, tanto meno di quelle legate al cancro orale che possono avere manifestazioni molto differenti fra loro: essere bianche, rosse, presentarsi sotto forma di ulcere, noduli, placche o neoformazioni.
Ecco, dunque, l’importanza che l’odontoiatra sia formato e preparato al riconoscimento di una lesione potenzialmente maligna, quali: leucoplachia omogenea e disomogenea, leucoplachia verrucosa proliferativa, eritroplachia, lichen planus orale, lesioni lichenoidi, graft-versus-host disease (patologia tipica di pazienti trapiantati che sviluppano timide lesioni lichenoidi a elevato rischio di cancerizzazione), lesioni palatali indotte da fumo, lupus eritematoso orale; poi esistono lesioni più classiche e conclamate, quali le ulcere con caratteristiche di malignità riferibili a bordi induriti e proliferazione tissutale interna all’ulcera stessa da attenzionare e da bioptizzare entro 15 giorni, anche negli studi odontoiatrici, se non guarisce, dopo rimozione di eventuali fattori di rischio, come raccomandato dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità).
Quindi, oltre a fare in modo che l’odontoiatria di territorio sia più pronto a occuparsi di prevenzione primaria, occorre anche metterlo nelle condizioni di saper comunicare al paziente e di erogare prevenzione secondaria.
Fonte: I numeri del cancro in Italia, AIOM-AIRTUM 2020
Quanto è preparato l’odontoiatra a comunicare con il paziente a rischio di lesione maligna?
Studi recenti hanno messo in luce che gli odontoiatri, in ambito di comunicazione, si dividono prevalentemente in due grandi categorie: coloro che tendono a dire tutto e subito al paziente, ancor prima della diagnosi definitiva, e coloro che si sottraggono al disagio di sfavorevoli comunicazioni.
Gli odontoiatri dotati di buon senso e capacità comunicativa riescono a districarsi in questa relazione difficile. La relazione/comunicazione è sempre bi-direzionale: se non si è sicuri del messaggio che si trasmette e/o non si è in grado di trasferire fiducia al paziente, specie nel momento di attesa di un referto della biopsia, la comunicazione entra in una grave ‘crisi’ e con essa anche la fiducia nei riguardi dell’odontoiatra stesso. È dunque prezioso e importante, al di là delle possibili riconosciute difficoltà, che l’odontoiatra non si sottragga al suo ruolo attivo di ‘tutor’, in tutte le fasi di diagnosi e cura del paziente: dall’avvio delle indagini, al sospetto oncologico, dal trasferimento e presa in carico da parte del centro di II livello, alla successiva fase di riabilitazione, controllo, e sopravvivenza libera dalla malattia, quando il paziente una volta concluso l’iter terapeutico tornerà in carico presso lo studio odontoiatrico d’origine.
È fondamentale che l’odontoiatra faccia lo sforzo non solo nel riconoscimento clinico delle lesioni potenzialmente maligne, ma soprattutto nello stare accanto al paziente in tutte le fasi di malattia, anche nel caso in cui, non sentendosi magari particolarmente ferrato dal punto di vista conoscitivo e scientifico in materia oncologica, preferisca un ruolo di secondo piano. Non dimentichiamo che il paziente è portato a essere più legato all’odontoiatra che negli anni lo ha seguito, monitorato, consigliato, “educato” rispetto al centro dove esegue accertamenti diagnostici o le terapie anti neoplastiche. Aspetto di vicinanza che diventa ancora più importante nel “tempo di attesa”, quello in cui il paziente non conosce ancora l’esito della chirurgia, in cui il periodo tra l’accertamento e il responso si carica di ansia, dipendente certo dallo stato emotivo del paziente, ma che può essere meglio controllato e gestito proprio dalle modalità con cui il medico/odontoiatra ha saputo condurre la comunicazione.
Come insegna la neurofisiologia quando ci si approccia al paziente al momento della diagnosi, occorre valutare se e in quale misura il paziente segue il professionista nella comunicazione. Esiste infatti un meccanismo “di blocco” nell’amigdala, sede della paura, che impedisce al paziente di ascoltare, accettare, ricordare, quanto gli viene detto dal professionista alla diagnosi, percependo queste informazioni come fonte di elevato stress e come minaccia emotiva e di cambiamento allo stato di vita attuale.
Il paziente deve percepire l’odontoiatra come sentinella e attore della sua salute orale, senza contare che un atteggiamento distaccato nei confronti del paziente da parte del professionista, spesso condizionato dalla “difficoltà” del tema e dalle implicazioni di fine vita, fa perdere di senso la mission della professione. L’odontoiatra deve, dunque, ulteriormente rinforzare sia la sua parte clinico-formativa riguardo le lesioni potenzialmente maligne sia la gestione delle stesse, a maggior ragione in questa finestra temporale post-Covid19 in cui i reparti di medicina orale sono in affaticamento per l’effetto rebound post-pandemico.
La medicina orale, branca della odontoiatria, si riconosce in un percorso diagnostico-gestionale, che la porta a dialogare con radiologi, chirurghi maxillo-facciali, plastici, otorinolaringoiatri, logopedisti, anatomopatologi. Dal suo canto, l’odontoiatra dovrebbe essere ricettivo, competente e comunicativo, favorendo l’empowerment e la partecipazione del paziente al proprio percorso di prevenzione primaria, secondaria e di cura; dovrebbe essere ancora più partecipe della salute orale del paziente e non solo della salute dentale, impianto-protesica o riabilitativa, ma con una presa in cura efficace, omnicomprensiva e proattiva. Senza dimenticare, in chiusura, che il paziente di oggi è raggiunto da molte più informazioni attraverso il web, ma questo non basta per garantire il processo della consapevolezza e il beneficio della cura, serve la buona relazione con il medico del cavo orale.