Sono strumenti essenziali per la rigenerazione tissutale guidata, utilizzate per promuovere la guarigione dell’osso e del legamento parodontale. Questo articolo esplora le diverse tipologie di membrane, i loro vantaggi e svantaggi e le applicazioni cliniche più comuni.
In parodontologia, le membrane sono utilizzate principalmente nelle tecniche rigenerative parodontali, che si suddividono in rigenerazione ossea guidata (Guided Bone Regeneration – GBR) e rigenerazione guidata dei tessuti molli (Guided Tissue Regeneration – GTR). Entrambe sono tecniche di chirurgia ricostruttiva che, per consentire la rigenerazione di tessuti duri e molli, utilizzano membrane barriera, elementi di fondamentale importanza per garantire chiusura primaria della ferita, angiogenesi, creazione/mantenimento dello spazio e stabilità del coagulo iniziale. GBR e GTR sono solitamente considerati sinonimi, ma in realtà non sono la stessa cosa. La GTR è stata introdotta a metà degli anni Ottanta e includeva procedure volte a rigenerare, mediante una membrana barriera che tenesse le cellule epiteliali lontane da superficie radicolare, tessuti parodontali e osso perduti (Dimitriou et al., 2012; Siaili et al., 2018). Nello stesso periodo si sviluppa, a partire dalla GTR, la GBR, tecnica che prevede la rigenerazione del solo tessuto osseo sempre mediante l’utilizzo di una membrana barriera, utilizzata per trattare le atrofie ossee prima o contestualmente al posizionamento di impianti (Donos et al., 2015; Sheikh et al., 2017).
Caratteristiche di una membrana barriera
Stabilità e capacità occlusive della barriera, dimensione dei pori della barriera, sigillo periferico tra barriera e osso ospite, adeguato flusso sanguigno e accesso alle cellule osteogenetiche sono tra i fattori che, oltre alla tecnica chirurgica utilizzata, contribuiscono al successo della GBR. Per essere utilizzata come dispositivo medico, una membrana deve soddisfare requisiti fondamentali: essere biocompatibile, avere proprietà cellulo-occlusive, essere integrata dal tessuto ospite, essere clinicamente maneggevole, essere in grado di delimitare uno spazio e possedere proprietà meccaniche e fisiche appropriate. Vediamo le proprietà nel dettaglio.
Biocompatibilità
La membrana deve garantire un accettabile livello di biocompatibilità. Non dovrebbe generare reazioni avverse nei tessuti circostanti, né contrastare l’obiettivo che con la guarigione si vorrebbe raggiungere, né essere nociva per il paziente.
Proprietà cellulo-occlusive
La membrana, per essere considerata ottimale, dovrebbe avere un’occlusività tale da impedire la formazione di tessuto fibroso, fattore che potrebbe prevenire o ritardare la formazione di osso. La occlusività è strettamente correlata alla porosità della membrana, elemento che influenza grandemente la potenzialità di una cellula a invadere lo spazio delimitato dalla membrana stessa. Le membrane devono risultare impermeabili alle cellule epiteliali o ai fibroblasti gengivali (in caso di impianti dentali) per non consentire a queste cellule a rapido sviluppo di invadere il difetto, inibendo l’infiltrazione e l’attività delle cellule osteogenetiche. La dimensione dei pori può anche condizionare la capacità di sostegno ai tessuti che il materiale deve garantire.
Integrazione tissutale
Poiché l’integrazione tissutale è l’elemento chiave di tutte le tecniche di rigenerazione tissutale, l’integrazione nel tessuto ospite è certamente un requisito fondamentale anche per le membrane. È ormai ampiamente dimostrato che l’integrità strutturale della membrana e una sufficiente adattabilità dei suoi margini al tessuto osseo circostante costituiscono prerequisiti fondamentali per ottenere una predicibile neoformazione di osso. L’integrazione tissutale, infatti, stabilizza i processi di guarigione delle ferite e fa sì che si crei quel sigillo tra osso e materiale capace di evitare l’integrazione di tessuto connettivo fibroso nel sito del difetto. L’integrazione tissutale tra la membrana e i margini ossei adiacenti dipende dalla capacità del materiale di garantire spazio con la membrana: un materiale troppo rigido non sarebbe in grado di modellare la forma del sito del difetto.
Maneggevolezza clinica
Una membrana dovrebbe essere pratica nell’uso clinico, particolarmente in odontoiatria. Una membrana troppo morbida impossibile da utilizzare ripetutamente durante una delicata procedura clinica quale può essere un intervento di chirurgia implantare o una membrana troppo rigida difficile da modellare e i cui bordi taglienti possano perforare i tessuti gengivali, con conseguente esposizione della membrana stessa, possono essere causa di complicazioni postoperatorie tali da condurre al fallimento della procedura. È stato dimostrato che nella GBR le membrane non riassorbibili hanno, rispetto alle membrane riassorbibili, una rigidità più appropriata, e offrono un ottimo risultato in termini di altezza e larghezza di osso neoformato.
Capacità di delimitare lo spazio
La membrana dovrebbe avere una rigidità tale da creare uno spazio coerente con l’entità di rigenerazione che si vuole ottenere e dovrebbe assicurare che questo spazio sia mantenuto tutto il tempo necessario alla formazione al suo interno del tessuto desiderato, garantendo un supporto adeguato al tessuto, anche in caso di difetti ampi. La membrana dovrebbe essere sufficientemente duttile per fornire la geometria più adatta per una ricostruzione funzionale, ma anche sufficientemente rigida per opporsi alla pressione esercitata dalle forze esterne, ad esempio le forze masticatorie in caso di ricostruzione dei mascellari. Se la membrana collassasse nel difetto, il volume dello spazio da rigenerare si ridurrebbe e non sarebbe possibile ottenere il risultato ottimale. Tale caratteristica è legata allo spessore della membrana. La membrana ideale possiede una giusta combinazione di rigidità e plasticità. Dovrà infatti avere una plasticità tale da consentirne la piegatura, la modellazione e l’adattamento al danno parodontale, creando un effetto tendina sul sito da riabilitare, ma anche essere sufficientemente rigida da contrastare la compressione esercitata dai tessuti che la sovrastano, garantendo il mantenimento dello spazio per tutto il tempo necessario alla guarigione completa.
Classificazione delle membrane
Le membrane utilizzate in parodontologia possono essere distinte in non riassorbibili e riassorbibili, dove il termine “riassorbibile” identifica la membrana che si degrada in un ambiente biologico.
Membrane non riassorbibili
Esistono quattro tipi principali di membrane non riassorbibili utilizzate per le procedure rigenerative parodontali:
• griglie in titanio;
• membrane in PTFE rinforzate in titanio;
•membrane in e-PTFE (forma espansa di PoliTetraFluoroEtilene);
• membrane in d-PTFE (PoliTetraFluoroEtilene ad alta densità).
Le principali caratteristiche che le accomunano sono la biocompatibilità e l’inerzia (Bottino e Thomas, 2015 – Elgali et al., 2017). Le griglie in titanio, così come le membrane in PTFE rinforzate in titanio, sono rigide e caratterizzate da una grande stabilità biomeccanica e dalla capacità di mantenere la loro forma (Iviglia et al, 2019). La grande rigidità delle griglie in titanio garantisce un effetto barriera che dura fino alla loro rimozione; perciò, sono preferite nella correzione di molti gravi difetti dell’osso alveolare (Chiapasco e Cosentini, 2018 – Ghavimi et al., 2020): solo se capaci di mantenere lo spazio, infatti, saranno in grado di permettere la proliferazione cellulare e la conseguente rigenerazione. Poiché è stato dimostrato che la griglia in titanio determinava un grado di rigenerazione molto superiore alla membrana in PTFE, si è pensato di aumentare la rigidità della membrana in PTFE inserendo al suo interno un’armatura in titanio.
Questa modifica ha apportato due vantaggi: migliorare la capacità della membrana di conservare lo spazio durante il periodo di guarigione e consentire una modellabilità che la rendeva adattabile a una grande varietà di difetti. La rigidità delle membrane non riassorbibili è però anche fonte di complicanze postoperatorie. Tra queste, la più frequente è l’esposizione della membrana, che può avvenire precocemente o in momenti diversi della guarigione.
Una spiegazione plausibile di tale evento è l’alta tensione esercitata dalla membrana sui tessuti molli: unita alla scarsa perfusione, essa genera deiscenze dei tessuti molli e necrosi del tessuto gengivale a contatto con la membrana barriera (Elgali et al, 2017 – Sheikh et al., 2017). Una volta esposta nel cavo orale, c’è un altissimo il rischio di infiltrazione batterica con conseguente infezione dei tessuti circostanti (Camps-Font et al, 2018). Quando ciò avviene, nella maggior parte dei casi è meglio procedere alla rimozione della membrana prima della guarigione completa, per non pregiudicare il risultato auspicato (Chiapasco e Casentini, 2018).
Per limitare il rischio che si verifichi questa complicanza, il clinico dovrebbe verificare la quantità di mucosa cheratinizzata presente, la profondità del fornice vestibolare, il grado di mobilizzazione del lembo, le caratteristiche del sito dove è collocata la ferita, dimensione e tipo della membrana utilizzata, cioè tutti i fattori identificati come predisponenti l’esposizione della membrana (Garcia et al, 2018).
Altra caratteristica importante delle membrane non riassorbibili è la porosità. La dimensione dei pori influenza moltissimo il grado di rigenerazione ossea nello spazio sottostante: più una membrana è occlusiva, tanto più condiziona l’invasione delle cellule dei tessuti molli nel difetto. La presenza di pori facilita la diffusione di fluidi interstiziali, ossigeno, nutrienti e sostanze bioattive sulla crescita cellulare, fondamentali per la rigenerazione ossea e dei tessuti molli (Schmid et al, 1994).
È stato però dimostrato che pori di grandi dimensioni inficiano la capacità occlusiva della membrana poiché consentono alle cellule dei tessuti molli di attraversare la membrana e riempire il difetto, impedendo l’ingresso e l’attività delle cellule osteogenetiche. Inoltre, pori di grandi dimensioni (5-30 μm) nelle membrane in e-PTFE facilitano la contaminazione batterica e l’aderenza dei tessuti molli (Bartee, 1995). Le membrane in e-PTFE, storicamente considerate il gold standard per la GBR, sono state progressivamente sostituite dalle membrane in d-PTFE. La loro porosità di calibro più piccolo riduce il rischio di contaminazione batterica tanto che possono essere lasciate esposte nella cavità orale e proteggono le ferite chirurgiche dal rischio potenziale di contaminazione batterica (Siaili et al, 2018). La bassa porosità conferisce alle membrane in PTFE una bassa adesione ai tessuti molli, cosa che rende molto facile la loro rimozione senza la necessità di intervenire nuovamente. Di contro, questa minima integrazione dei tessuti con la membrana in d-PTFE potenzialmente può creare problemi alla formazione del coagulo iniziale, alla stabilizzazione della ferita e alla stabilità della membrana stessa. Comportamento diverso hanno le griglie in titanio che, nonostante abbiano una struttura macroporosa in teoria favorente la migrazione di cellule non osteogenetiche dei tessuti molli all’interno del difetto, risultano essere le membrane dal risultato più predicibile nella rigenerazione ossea di difetti orizzontali e verticali. L’uso di membrane non riassorbibili è stato criticato perché costringe il paziente a subire un secondo intervento per la rimozione da 16 a 24 settimane dopo il primo intervento, necessità che, oltre a creare disagio aggiuntivo, può interferire con il processo di guarigione e incide su tempi e costi della terapia.
Membrane riassorbibili
Possono essere di origine naturale (animale o umana) o sintetiche. La loro caratteristica è rimanere intatte, creando una barriera fisica per il tempo durante il quale la rigenerazione è completata, per poi venire gradualmente idrolizzate e metabolizzate fino a completa decomposizione (Bottino e Thomas nel 2015 hanno dimostrato che sia la membrana sia i prodotti della sua decomposizione sono sicuri). Il riassorbimento elimina il rischio potenziale di complicazioni legate alla presenza a lungo termine di materiali estranei e la necessità di reintervento finalizzato alla rimozione della membrana, con riduzione del dolore e risparmio economico per il paziente. Un elemento da considerare nella scelta di una membrana riassorbibile è la sua velocità di riassorbimento, che dovrà essere pari alla velocità con cui tessuti molli e/o l’osso si rigenerano onde evitare il collasso della membrana stessa (Zhang et al., 2020).
1. Membrane in collagene
Sono le membrane riassorbibili più utilizzate: il collagene, componente del tessuto connettivo, ha un ruolo fondamentale nel supporto strutturale e nella comunicazione cellula-matrice. Il collagene risulta interessante per la GBR per le sue molte qualità: bassa antigenicità, alta biocompatibilità, eccellente affinità cellulare (Soldatos et al., 2017) e capacità di promuovere l’emostasi e la chemiotassi del legamento parodontale e dei fibroblasti gengivali (Locci et al., 1997). Molti studi hanno dimostrato come la membrane in collagene favoriscono la guarigione delle ferite e la rigenerazione ossea. Il principale svantaggio è la scarsa rigidità, per cui il loro uso trova applicazione in quei difetti ossei, come deiscenze ossee o fenestrazioni, dove non sono richieste stabilità e fissaggio. Le membrane in collagene di derivazione animale, composte principalmente da collagene di tipo I e/o di tipo III, originano da tessuti bovini o suini (tendini, derma e intestino tenue) e hanno una degradazione diversa in relazione alla diversa fonte animale. Il tempo della degradazione del collagene che compone una membrana può non essere compatibile con il tempo che la rigenerazione tissutale necessita, ovvero la membrana potrebbe essere riassorbita troppo velocemente. Per ovviare al problema e potenziare le proprietà meccaniche di tali membrane sono stati sviluppate varie tecniche di cross-linking fisico/chimico. Tali tecniche prevedono l’uso di raggi ultravioletti, trattamento con sostanze chimiche quali glutaraldeide, 1-etil-3-(3-dimetilaminopropil)carbodimmide cloridrato (EDC). Sebbene il cross-linking chimico abbia determinato un incremento di stabilità del collagene, i residui delle sostanze chimiche usate (ammidi o aldeidi) sono stati causa di importante risposta infiammatoria nel sito di posizionamento della membrana. La prevedibilità della membrana in collagene, dunque, non dipende solo dall’origine del collagene, ma anche dal tipo di trattamenti ai quali è stata sottoposta (decellularizzazione, sterilizzazione e metodica di cross-linking). Sostanze naturali come genipina o D-ribosio sembrano essere agenti di cross-linking sicuri, atossici, non immunogenici in grado di generare membrane in collagene con grande resistenza meccanica e basso grado di riassorbibilità. (Simion et al., 2007) Nelle membrane in collagene di derivazione umana, la matrice dermica acellulare (ADM) si ottiene dalla pelle dopo rimozione di tutte le cellule del derma e dell’epidermide. Si è visto che la struttura di collagene e l’elastina della matrice extracellulare e il fattore di crescita endogeno dell’ADM si conservano anche dopo la decellularizzazione. Analisi biomeccaniche hanno dimostrato che l’ADM ha resistenza e rigidità migliori della membrana cellulare dermica, dimostrandosi utile nella conservazione della cresta alveolare e nel trattamento dei difetti perimplantari. In odontoiatria le membrane amnion corion umano disidratato (dHACM), che si riassorbono in 8-12 settimane, sono usate per il trattamento di perimplantiti, la conservazione della cresta alveolare, la riparazione di danni della membrana sinusale, la rigenerazione parodontale, la copertura radicolare e la GBR (Mizraji et al, 2023). La membrana amniotica multistratificata liofilizzata sembra favorire la crescita ossea e limitare l’invasione del tessuto fibroso (Li et al, 2015).
2. Membrane a base di chitosano
Il chitosano è un polimero di derivazione naturale, ricavato dal guscio di crostacei. I biomateriali a base di chitosano sono biocompatibili, biodegradabili, hanno bassa immunogenicità, attività antibatterica e sono capaci di promuovere attrazione, proliferazione e differenziazione cellulare.
Queste membrane sono facilmente manipolabili, hanno struttura porosa e sono batteriostatiche. Grazie alle loro proprietà antimicrobiche si sono dimostrate capaci di ridurre l’infiammazione gengivale che accompagna le parodontiti (Elgali et al., 2017; Iviglia et al., 2019). Altri studi sono però giunti alla conclusione che sono rigide, si riassorbono lentamente e non si integrano bene con i tessuti molli circostanti, caratteristiche che le renderebbero inadatte a essere utilizzate come membrane barriera (Fernandes et al., 2020). Altri polimeri naturali con potenzialità promettenti sono utilizzati per produrre biomateriali riassorbibili, come pectina, seta, alginato e acido ialuronico (Iviglia et al., 2019).
L’introduzione della nanotecnologia ha permesso di migliorare le proprietà di vari biomateriali. L’introduzione dell’elettrospinning, una tecnica di ingegneria dei tessuti, consente di incorporare durante il processo produttivo sostanze con proprietà terapeutiche quali antimicrobici (per esempio il Metroinidazolo che conferisce attività antimicrobica, prevenendo la colonizzazione batterica e l’infiammazione ad essa conseguente), particelle inorganiche (fosfato di calcio) e biomolecole (ad esempio fattori di crescita) (Bottino et al, 2017)
Le proprietà meccaniche delle membrane riassorbibili sono state potenziate in vario modo: incorporando componenti inorganici, accoppiando materiali diversi a creare membrane multistrato, cambiando peso molecolare del polimero.
Nelle membrane multistrato possiamo trovare varie combinazioni: uno strato compatto in grado di impedire l’infiltrazione delle cellule epiteliali nel difetto osseo unito a uno strato poroso e spugnoso in grado di favorire l’integrazione tissutale; due strati con differenti porosità e geometria sovrapposti a formare una griglia (mentre lo strato esterno ha grandi pori rettangolari per favorire l’integrazione dei tessuti molli sovrastanti e l’integrazione tissutale, lo strato interno ha piccoli pori rotondi per rallentare la penetrazione dei tessuti pur favorendo l’ingresso di nutrienti); tre strati per allungare il periodo di riassorbimento della membrana così da garantire un effetto barriera più prolungato. Non va dimenticato che la sovrapposizione di strati porta inevitabilmente a una variazione nello spessore della membrana, fattore che può influenzare le proprietà meccaniche e di mantenimento dello spazio.
Membrane sintetiche riassorbibili
Introdotte all’inizio degli anni Sessanta, utilizzate in parodontologia sono scevre dal rischio di trasmissione di patologie poiché non hanno origine umana o animale. L’elemento che le rende interessanti in parodontologia è il fatto che le loro caratteristiche (resistenza biomeccanica, proprietà chimiche, velocità di riassorbimento e dimensione dei pori) possono essere predefinite in corso di produzione per soddisfare le richieste del clinico, così da rendere la loro performance più predicibile (Hwang et al., 2020).
I poliesteri alifatici sono la categoria di polimeri sintetici utilizzata per costruire membrane riassorbibili.
In questo gruppo sono compresi: poli(acido lattico) (PLA), poli(acido glicolico) (PGA), poli(ε-caprolattone) (PCL), poli(acido idrossivalerico), poli(acido idrossibutirrico) e i loro copolimeri.
Le membrane in PLA sono state le prime approvate dall’FDA e sono ancora oggi ampiamente utilizzate nella GBR. Si mantengono intatte per 4-6 settimane e, trascorso questo lasso di tempo sufficiente a garantire la funzione di barriera e la completa rigenerazione, iniziano a disintegrarsi e a riassorbirsi gradualmente, mantenendo però una resistenza biomeccanica sufficiente a supportare la formazione di nuovo tessuto (Bottino et al., 2015).