Mi sono sono successe due cose interessanti nell’ultimo periodo. La prima è che mia nipote di 4 anni mi ha detto, in tono molto serio, che sono diventato “vecchiotto”. La seconda è che un amico mi ha chiesto di realizzare un aggiornamento sulla cariologia, il mio primo amore. Sono quindi stato costretto a riprendere in mano argomenti che mi sono reso conto di non aver mai considerato con la giusta attenzione; in particolare la carie secondaria.
Argomento ostico, non immaginavo quanto, principalmente perché in letteratura non c’è davvero molto. O meglio, troviamo una valanga di lavori che si contraddicono l’un l’altro e che la mia lunga esperienza di referaggio mi porta a considerare con cautela…
Le due idee che tuttavia emergono con prepotenza sono per lo più contrarie alle nostre più intime convinzioni: la prima è che non esistono criteri validati per la diagnosi di carie secondaria e la seconda è che lasciare tessuto infetto al di sotto dei restauri non ne riduce l’attesa media di vita… pazzesco, non avrei mai detto!
Noi vecchiotti godiamo di un unico privilegio: possiamo giudicare il nostro operato senza pregiudizi e senza doverci raccontare fiabe per difendere la nostra futura brillante carriera: c’è ancora tempo, ma non abbastanza da non poter essere sprecato a cuor leggero. Ciò mi ha indotto a considerare come negli ultimi anni una rilevante percentuale della mia attività professionale sia stata spesa nel rifacimento di restauri che mostravano difetti o discolorazioni nell’area marginale o ancora una modellazione originale o addirittura spregiudicata.
Nella nostra vita di tutti i giorni, il rifacimento coinvolge un meccanismo psicologico complesso. Nel mio caso la decisione viene presa in modo fulmineo: “Signora, restauro ormai impresentabile, va rifatto”! Poi prendo la fresa e, altrettanto velocemente, elimino il restauro (ormai una certa mano ce l’ho); solo successivamente, in una significativa parte dei casi, mi accorgo che si trattava solo di una pigmentazione o di una lesione che probabilmente avrebbe impiegato anni a raddoppiare il suo volume.
In questi casi ho sempre superato brillantemente l’impasse dicendomi che l’aspetto occlusale era comunque importante. Fino a quando uno studente, più brillante di me, mi ha suggerito che sarebbe stato più veloce ed economico correggerlo semplicemente utilizzando una fresa.
Vero, ma chi mi paga per correggere la morfologia occlusale? Questo è il centro del problema o, come direbbe Sun-Tzu, il “cuore della battaglia”. La nostra competenza, la capacità di operare o, più coraggiosamente, di non operare, nell’interesse esclusivo del paziente, rappresenta l’unica, invincibile arma nei confronti della crisi o dell’odontoiatria low cost.
È probabilmente una questione legata alle nostre capacità comunicative il far capire ai pazienti che la via per la salute passa principalmente attraverso il rapporto con una persona che non è obbligata a fare qualcosa. Una persona che ragionerà, si documenterà e potrà decidere di attendere anche 10 anni prima di intervenire, perché viene retribuita per mantenere la salute del paziente e non per intervenire in ogni caso.
I pazienti sono pronti. E noi?