Le caratteristiche della superficie costituiscono una variabile importante nel complesso processo dell’osteointegrazione. Negli anni, sono state proposte diverse tecniche volte a potenziare la superficie stessa: sabbiatura, mordenzatura con acidi, anodizzazione, fluorurazione, plasma spraying, coating con fosfato di calcio. Si tratta di metodiche sottrattive o additive, diversissime tra loro, tutte però volte ad accelerare il processo di osteointegrazione. Uno dei vantaggi comuni ottenuti con tali lavorazioni consiste nell’aumento della bagnabilità, più correttamente idrofilia, della superficie. Questo dato, secondo alcuni studi recenti, sarebbe particolarmente importante nelle prime fasi del processo di guarigione. Una superficie implantare maggiormente idrofila presenta bassa concentrazione di carbonio e alti livelli di ossigeno, il che favorirebbe l’adesione iniziale e la diffusione delle cellule osteoblastiche.
Sopravvivenza implantare
Partendo da queste evidenze, Almassri e colleghi hanno condotto una revisione sistematica della letteratura con metanalisi, al fine di valutare l’impatto dell’incremento della bagnabilità di superficie sulla stabilità e sul tasso di sopravvivenza degli impianti. I risultati sono stati recentemente pubblicati sul Journal of the American Dental Association.
La ricerca ha coinvolto 3 fra le principali banche dati (PubMed, ScienceDirect, Cochrane Library), aggiornate al 15 ottobre 2019. Da qui sono stati evidenziati, in totale, 671 report, 466 dei quali effettivamente sottoposti a screening. Di questi, 21 sono stati i full text indagati, 16 dei quali sono stati esclusi perché non conformi ai criteri prestabiliti. Alla fine, pertanto, 5 trial clinici randomizzati, pubblicati tra il 2007 e il 2009, sono stati portati all’analisi quantitativa (meta-analisi), per un campione complessivo di 246 impianti.
Dal punto di vista del rischio di bias, 2 studi sono stati considerati di qualità elevata, altrettanti di qualità limitata e il restante di qualità incerta.
I diversi lavori hanno valutato il primo outcome, ossia i valori di stabilità implantare, fino a un termine di 6 (2 studi), 8 (2) o 12 (1) settimane. 4 dei 5 studi hanno riportato i dati di survival e success rate.
Contrariamente a quanto atteso, in nessun caso gli impianti con aumentata idrofilia hanno riportato dati significativamente superiori di stabilità né di sopravvivenza.
Per ammissione degli stessi autori, queste indicazioni devono essere soppesate con cautela, alla luce dei limiti della revisione. In primo luogo, la già considerata difformità in termini qualitativi tra i pochi studi inclusi e, secondariamente, la limitatezza numerica del campione finale.
In conclusione, le evidenze sono da reputare interessanti anche da un punto di vista clinico. Dovranno tuttavia essere integrate al più presto con l’ausilio di nuovi trial clinici, dotati di campioni ampi e parametri ben definiti, partendo possibilmente dalla stessa revisione.
Riferimenti