Le fonti scientifiche concordano nel definire, all’interno del panorama dei biomateriali a uso odontoiatrico, l’innesto osseo autologo come il gold standard nelle metodiche preimplantari di bone augmentation. La tecnica gode dei vantaggi derivanti dalla perfetta compatibilità immunologica e soprattutto delle proprietà osteoconduttive, osteoinduttive e osteogeniche. I tassi di successo della procedura si attestano attorno al 95% – e in molti casi superano tale quota – anche nei casi di rigenerazione di creste ossee fortemente atrofiche.
Innesto autologo in chirurgia orale
L’innesto può essere prelevato in siti extraorali o, più comunemente, intraorali, sempre sulla base di precisi criteri preoperatori. Il sito di prelievo può essere legato a discomfort per il paziente e la procedura è comunque esposta a rischi postoperatori, compreso il fallimento dell’integrazione dell’innesto o degli impianti. Recentemente, un interessante lavoro retrospettivo (Sakkas 2018) apparso su Journal of Cranio-Maxillo-Facial Surgery ha indagato un totale di 279 pazienti ai quali è stato prelevato un innesto osseo autologo di origine intraorale (cresta zigomatico-alveolare, ramo mandibolare in area retromolare o sinfisi mentoniera) o extraorale (cresta iliaca) impiegato in procedure di bone augmentation, per (456 in totale). Lo studio ha incluso anche casi di sinus lift mono o bilaterale con bone chips a origine autologa.
L’obiettivo consisteva nel definire dei criteri di rischio per complicanze, fallimento dell’innesto e perdita precoce degli impianti. Sono state contemplate complicanze intraoperatorie (perforazione della membrana dello Schneider) e postoperatorie precoci (deiscenze, infezioni dei tessuti molli, esposizioni ossee) e tardive (fallimento dell’innesto o dell’impianto appunto).
Il campione comprendeva individui di età compresa fra i 18.5 e i 71.5 anni, con media di 43.1 anni, ed era leggermente sbilanciato numericamente verso la fascia under-40 (162 pazienti, pari al 58.1% del campione) rispetto a quella over-40 (117 pazienti, 41.9%). Questo secondo gruppo ha riportato tassi significativamente più elevati di complicanze a livello dei siti sia donatori che riceventi. Per quanto riguarda il fallimento implantare, il gruppo ≥40 ha riportato 11 casi contro i 9 di quello <40, dato che secondo gli Autori sarebbe da correlare principalmente a un alterato processo di guarigione ossea e che correggerebbe al ribasso le indicazioni di Moy (2005), il quale considera a rischio la fascia sopra i 60 anni.
Per quanto riguarda l’abitudine al fumo, la revisione sistematica di Chambrone (2014) stabilisce l’influsso negativo sulle aree di innesto osseo. Lo studio in esame riporta un tasso di fallimenti dell’innesto quadruplo rispetto ai non fumatori indagati.
Un ulteriore fattore di rischio è rappresentato dagli score parodontali: la parodontopatia è causa principale del 90% dei casi di perdita primitiva di elementi dentari nel campione studiato. I pazienti che riportavano Approximal Plaque Index (API) e, ancora di più, Sulcus Bleeding Index (SBI) preoperatori superiori al 20% sarebbero soggetti a morbilità significativamente superiore. Anche il tasso di fallimenti dell’innesto sembrerebbe seguire questa tendenza.
Un ulteriore fattore di rischio evidenziato è rappresentato dall’estensione del sito rigenerato nel confronto tra siti edentuli singoli e multipli. Sono invece stati esclusi dai possibili fattori la causa in sé dell’edentulia, la sede della rigenerazione (se mascellare o mandibolare). Dal punto di vista della pratica clinica, gli Autori suggeriscono, una volta rilevati i pazienti a rischio sulla base dei fattori elencati, di impostare un monitoraggio postoperatorio più stretto.
Riferimenti bibliografici