Dai lontani tempi dei pionieri l’implantologia ha subito tali e tanti cambiamenti da apparire come una nuova scienza: le continue ricerche cliniche e di laboratorio l’hanno modificata profondamente. Basti pensare alle applicazioni nei pazienti ancora in crescita che una volta erano non solo off-label ma proprio off-limits, ai mini-impianti o al carico immediato. Agli aggiornamenti più recenti è dedicata la seguente rassegna dalla letteratura internazionale.
L’implantologia nei pazienti in età di crescita
Da applicazione impensabile, l’implantologia nei pazienti ancora in crescita si è progressivamente ritagliata un suo spazio operativo per la sostituzione di elementi persi in seguito a traumi o malattie ereditarie, come quella di Papillon-Lefèvre, o congenitamente assenti. Grazie alla metanalisi che permette di condensare i dati di più ricerche come se fosse un’opera unica, gli autori hanno individuato gli articoli inerenti pubblicati negli ultimi 40 anni. Essendo argomento ancora relativamente poco indagato, vi è tuttora notevole discordanza sull’età limite, per alcuni autori anche tre anni, per altri 18. La letteratura mette a disposizione prevalentemente studi di tipo osservazionale prospettico e retrospettivo eseguiti dopo il 2008 con un arco temporale massimo di sei anni. Nel complesso non si sono verificate complicazioni solo nel 33% dei casi clinici mentre nel 13% vi era stato il fallimento completo; nella quota restante il fallimento è stato parziale.
Tra le cause di insuccesso figurano perdita o mobilità dell’impianto, esposizione della vite, perimplantite, infraclusione.
Percentuali, come si vede, ben diverse da quelle riportate negli studi su pazienti adulti, che impongono quindi una valutazione preoperatoria molto cauta.
Il comportamento clinico della connessione conica interna rispetto a quella interna non-conica
In questa revisione sistematica gli autori hanno estratto dalla letteratura 12 ricerche randomizzate per un totale di 678 pazienti e 1.006 impianti. La metanalisi ha evidenziato che con la connessione conica interna si riducono il rischio di perdita ossea marginale e le complicazioni protesiche, mentre non sono emerse differenze tra i due sistemi per quanto riguarda le complicazioni biologiche e la durata degli impianti. Nonostante la buona qualità metodologica della maggior parte delle ricerche, gli autori classificano come medio-bassa l’affidabilità delle conclusioni in attesa di nuove indagini meglio strutturate e di maggiore estensione temporale.
Revisione sistematica e metanalisi degli impianti con diametro ridotto
Sull’argomento segnaliamo questa pubblicazione interessante, anche se un po’ datata, che ha analizzato la percentuale di fallimento dei mini-impianti in base al loro diametro. Come è logicamente prevedibile, il rischio di insuccesso è maggiore per quelli di diametro minimo (inferiore a 3 mm) che mediamente falliscono nel 5% dei casi mentre quelli di diametro compreso tra 3 e 3,5 mm cedono nel 3% dei casi. Nelle pubblicazioni prese in esame, gli impianti fino a 3 mm risultavano usati prevalentemente per riabilitazioni totali nei casi di grave atrofia ossea; quelli con diametro compreso tra 3 e 3,25 mm prevalentemente per la sostituzione di singoli elementi anteriori, mentre quelli con diametro tra 3,3 e 3,5 mm per tutte le riabilitazioni.
Connessione esterna, interna e conica a confronto
In questo articolo è stata usata la metodologia della metanalisi a rete che permette di confrontare più di due trattamenti tra loro, mentre la metanalisi si limita a due. Nonostante i dati finora disponibili suggeriscano la superiorità della connessione interna in fatto di complicazioni meccaniche e rischio di infiltrazione, mancava un confronto con gli altri tipi di connessione. Sono stati quindi selezionati studi eseguiti in modo randomizzato su due o più sistemi e con periodo di osservazione di almeno un anno dall’applicazione della protesi. Purtroppo, ben 14 studi su 18 individuati presentavano un alto rischio di errore nel protocollo seguito, in particolare per l’affidabilità della valutazione in cieco. Il campione complessivamente così raccolto comprendeva circa 1.000 pazienti e 1.500 impianti. I risultati sostengono la superiorità delle connessioni coniche in fatto di perdita ossea marginale e complicanze protesiche mentre, anche se il dato non supera la soglia di significato statistico, queste si dimostrano più predisposte alla patologia perimplantare. Non sono state riportate complicanze meccaniche con le connessioni esterne ma, avvertono gli autori, non sono stati considerati altri fattori non trascurabili come le caratteristiche fisiche degli impianti, le modalità chirurgiche, i materiali protesici e i fattori individuali dei pazienti (fumo, patologie sistemiche, spessore dei tessuti molli, eccetera). Inoltre, la perdita di osso dovrebbe misurarsi a intervalli standard su un arco temporale più lungo, mentre solo una delle ricerche incluse nella metanalisi si è protratta per cinque anni. Pertanto il minor rischio di fallimento degli impianti con connessione conica a un anno di distanza è poco significativo dal punto di vista clinico.
Revisione sistematica e metanalisi della microinfiltrazione nella superficie impianto-moncone protesico
La penetrazione di microrganismi attraverso l’interfaccia moncone – impianto è considerata un fattore che influisce sul buon esito del trattamento ma sono scarse le prove scientificamente sicure.
Oltre alla consueta eterogeneità delle ricerche svolte finora, manca pure un metodo standard che valuti la capacità ermetica dell’interfaccia con la conseguenza che le prove in vitro possono dare risultati discordanti; infatti, in alcuni protocolli il moncone è soggetto a carico statico, in altri a carico dinamico (che probabilmente causa un effetto di aspirazione), in altri ancora non viene caricato.
Anche il numero di cicli funzionali (da 500mila a 6 milioni) e l’entità della forza applicata (da 15 a 300 N) variano molto tra le ricerche.
La connessione conica, considerata quella meno esposta al rischio, era presente in 13 delle ricerche esaminate mentre solo 4 riguardavano le connessioni esterne. Gli autori hanno selezionato 17 ricerche (di cui 7 solo con carico statico) per un totale di 728 impianti, la maggior parte dei quali in titanio (solo due ricerche hanno valutato impianti in Peek). In totale, i risultati hanno rivelato microinfiltrazione in quasi la metà dei campioni (47%) con una prevedibile progessione dal 15%. degli impianti non caricati (valore minimo) al massimo del 59% in presenza di carico dinamico.
La connessione interna si è dimostrata meno permeabile (42%) contro quella esterna (82%). Per la scarsità dei dati disponibili, non è stato invece possibile valutare l’utilità dei sigillanti siliconici né dei gel con clorexidina.
Revisione sistematica e metanalisi di mini-impianti e impianti tradizionali per protesi totali inferiori
Borges GA, Codello DJ, Del Rio Silva L, Dini C, Barão VAR, Mesquita MF. Factors and clinical outcomes for standard and mini-implants retaining mandibular overdentures: A systematic review and meta-analysis. J Prosthet Dent. 2023;130:677–689.
L’introduzione dei mini-impianti risale ai primi anni Novanta; accolti più prontamente e con meno timori dagli ortodontisti che se ne servono per rinforzare l’ancoraggio o per crearlo, i mini-impianti vengono ora abitualmente usati anche dai protesisti dove l’osso non permette di inserire quelli di misura normale. Essendo la letteratura molto più abbondante per i mini-impianti ortodontici, gli autori hanno trovato solo sette pubblicazioni coerenti con i loro parametri di selezione. Nel complesso i mini-impianti (che presentano diametri inferiori a 3,5 mm) si distinguono da quelli normali per minore necessità di sostituire gli elementi ritentivi, rischio di frattura della protesi e necessità di modifiche occlusali. Si dimostrano, inoltre, più vantaggiosi anche dal punto di vista parodontale, con un minor indice di placca.